Ambiente: La città bianca
Mi sveglio dopo un sogno vivido in una bellissima camera completamente bianca. Ultimamente quando mi “sveglio” dopo un sogno mi viene in automatico il sospetto che sia un falso risveglio e il trovarmi in una stanza a me sconosciuta mi fa diventare lucido quasi subito. Sono da solo in un grande letto, per metà coperto da delle lenzuola bianche. Le sposto e mi alzo in piedi dando un’occhiata alla stanza: è tutta bianca, ma di un bianco irreale, fiabesco. Le pareti sono così luminose che sembrano emettere luce propria. Noto delle tende sempre bianche che svolazzano per via del vento che proviene da fuori, sento anche delle voci di bambini che giocano provenire da oltre la finestra. L’atmosfera è a dir poco rilassante e mi mette a mio agio. Faccio per avvicinarmi alla finestra per spostare le tende e vedere dove mi trovo, ma mi ricordo della task di Oniria dopo pochi passi. A questo punto mi strofino le mani per stabilizzare, poi penso che oltre le tende troverò il regno di Oniria e che ci sarà una torre a confermare il fatto di trovarmi proprio lì. Al termine di questo ragionamento mi avvicino nuovamente alle tende e ci passo oltre chiudendo per un istante gli occhi. Una volta riaperti mi ritrovo su un tetto con una visuale su una città abbastanza particolare: è perlopiù costituita da basse casette bianche e con tetti piatti, disposte in modo disordinato. Mi ricorda un po’ un paese arabo o greco d’altri tempi, con anche qualcosa di Tatooine e Numeror. In lontananza svetta un altissimo faro, anch’esso bianco, spesso alla base e che va ad assottigliarsi verso la cima, dove però all’ultimo si allarga in una forma sferica. Penso che quella deve essere la torre di Oniria e sono contento di averla trovata subito, così che ora posso esplorare la città senza l’ansia di doverla cercare. Le case si estendono fino a perdita d’occhio e nell’insieme emettono quel particolare biancore simile alla camera di prima, inoltre pur avendo forme regolari alcune si combinano tra di loro in strutture all’apparenza fatiscenti, tipo dei pezzi di lego. La giornata è solare e limpida, riesco anche a vedere delle montagne all’orizzonte, segno che c’è della natura oltre la città. Con un salto scendo dal tetto su cui mi trovo e atterro sulla strada, comincio a correre per le viuzze, frettoloso di vedere e recepire più informazioni possibili. Le stradine sono in discesa e affiancate dai muri bianchi delle abitazioni, che sembrano più alte rispetto a prima. In alcuni tratti, vicino ai muri, c’è una specie di binario in metallo, tipo quelli degli skatepark. Provo a salirci sopra con i piedi e comincio a scivolare a grandi velocità giù verso il centro del paese, ma perdo l’equilibrio in un paio di occasioni, cadendo malamente. Riesco alla fine a raggiungere una piccola piazza con un monumento al centro, una specie di statua della libertà in miniatura ma con una fiaccola spropositatamente grande e animata, nel senso che la pietra sembra ardere come il fuoco vero. La piazzetta è di forma circolare, abbellita con qualche alberello sparso qua e là, mentre ai bordi ci sono dei negozietti e bancarelle e delle persone vestite con delle lunghe tuniche, allo stile arabo. C’è un uomo in particolare alla mia sinistra che non mi toglie gli occhi di dosso e mi guarda con un sorrisetto, intuisco in lui il desiderio di rivolgermi la parola, così mi avvicino. Gli chiedo se questa fosse Oniria ma lui non sembra capirmi, più che altro fa finta. Glielo chiedo una seconda volta e annuisce, ma ancora non sono sicuro mi abbia capito. È tuttavia molto gentile e in una lingua che non conosco mi invita a seguirlo nel suo bazar. Mi fa sedere su una panca e dopo avermi letto qualcosa sul palmo della mano destra incide con un uncinetto una scritta su un sottile strato di legno, forse di papiro. Poi me lo mostra soddisfatto, sempre sorridendo, e intuisco che si tratti di qualcosa legato alla mia persona, forse il mio nome nella lingua di quel luogo. Purtroppo non ho osservato abbastanza i caratteri per ricordarmeli al risveglio. Poi si alza e porta il biglietto ad una piccola cavità nel muro, che lo risucchia come fosse una banconota. Da quel momento un quadro posto nelle immediate vicinanze comincia a prendere vita come risposta all’input dato, tipo midjourney. Dapprima raffigura immagini e forme senza senso, poi qualcosa simile al mio volto, che continua a cambiare velocemente in alcuni dettagli, un po’ come nei video in cui si fa una foto ogni giorno per anni e poi si fa un time lapse. Il quadro comincia però a diventare disturbante, il mio volto ha una smorfia come fosse quello di Dorian Gray, poi diventa una specie di alieno e mostro. Decido che voglio andarmene ed esco velocemente dal locale, nel mentre sento la voce isterica di una mia vecchia prof di liceo che urla il mio cognome. Appena sono fuori mi giro e muovendo le mani e le braccia riesco a sigillare completamente la facciata con una grossa lastra di pietra creata sul momento. Ho chiuso tutto dentro, bene, mi dico. Esco da un’uscita che prima non c’era per ritrovarmi in un grande viale a più corsie. Cammino a passo spedito, l’ambiente è diverso da prima, mi ricorda una città più moderna dei nostri giorni, ma abbandonata da tempo. In tasca trovo degli auricolari che metto all’orecchio, appena lo faccio ricevo una chiamata da un’amica che mi chiede di vederci perché mi deve parlare. Le do appuntamento alla camera bianca dell’inizio tra circa un’oretta ma mentre siamo ancora al telefono sento dietro di me il galoppare di una mandria di cavalli che si avvicina velocemente. Mi premo contro il muro appena in tempo per non essere investito dagli animali imbizzarriti, ho modo di vederli solo di sfuggita e sono decisamente più grandi di un cavallo normale. Mi alzo in volo per seguirli ma attira la mia attenzione un enorme spiazzo verde alle pendici dei monti oltre il paese. Atterro quindi sopra un albero posto su una collinetta, dalla quale godo di una bellissima visione onirica: una grande distesa verde di erba mossa dal vento, irreale per quanto satura di colore. Un fiumiciattolo scorre fino ad arrivare ad un lago alle pendici delle montagne innevate, lontane. Osservo e trovo la pace dei sensi. Probabilmente mi sarei svegliato qui, ma lo sguardo perso nel verde vede improvvisamente degli animali strani, molto strani. All’inizio li guardo con scarso interesse perché sto quasi per perdere lucidità, ma poi mi accorgo di non aver mai visto bestie simili e l’attenzione e lucidità ritorna alta. La mia ipotesi è che si tratti di dinosauri erbivori, ce ne sono due parecchio grossi che sembrano fare i gradassi con un’altra coppia di animali più piccoli. La coppia più aggressiva, probabilmente un genitore con un figlio, attacca e intima gli altri due esemplari ad allontanarsi. Il “dinosauro” più grande è una specie di enorme antilope verde, ma le sue corna sono perfettamente dritte e rivolte verso l’alto a novanta gradi per un’altezza che sarà due-tre volte la lunghezza dell’animale. Mentre lo osservo penso “ma tu cosa diavolo sei, come sei stato partorito dal mio inconscio”. Non l’avessi mai fatto. La bestia sembra aver ascoltato i miei pensieri e si gira verso di me perdendo interesse in quello che stava facendo poco prima. Comincia ad avvicinarsi lentamente ma in pochi passi è sotto di me e l’albero non è sufficientemente alto per tenermi al sicuro. Il dinosauro non mi sembra minaccioso ma la sua mole e il fatto che non sappia che non appartengo alla sua dieta lo rende pericoloso, come trovarsi davanti alla bocca di una balena confusa e curiosa, questa è la mia sensazione. L’animale allunga il collo per provare a darmi una leccata e io in risposta alzo le cosce e i glutei per evitare di entrare nella sua bocca. Decido di scappare, salto dall’albero e volo via, tornando verso il faro. In realtà ora il faro è più una torre, un’altissimo campanile in pietra bianca, riesco a vedere i massi che lo compongono e arrivo volando a circa metà della sua altezza, aggrappandomi agli spazi tra una pietra e l’altra. La superficie è ruvida, molto realistica al tatto, come anche le piccole erbacce che spuntano dai buchi della roccia. Dietro di me vedo il mare e io sono aggrappato in una posa alla assassin’s creed. Con uno slancio all’indietro mi immagino di tuffarmi direttamente in quel mare e così faccio, puntando i piedi contro la parete e lanciandomi. Finisco nel mare colmando tutta la distanza che mi ci separava in pochi attimi. Mentre sprofondo nell’acqua vedo la barriera di roccia sulla quale sono costruite delle abitazioni bianche simili a quelle iniziali, come se la città continuasse al di sotto del mare. Sprofondo ancora, mi sveglio.