Dom. 10/11/2013
Guardo l'ora l'ultima volta prima di appisolarmi alle 17:16.
Arrivo.
Ad accogliermi c'è la mia ex collega M. con una cartelletta in mano, solare ed elegante come sempre.
Inizia a guidarmi mo'di itinerario turistico mentre parliamo del piú e del meno quando arriviamo a visitare l'antico laboratorio del mastro fabbro. Ci fermiamo al di fuori della porta chiusa, una porta di legno intarlato con grosse cerniere di nero ferro battuto.
Un tizio (presumibilmente l'assistente del mastro) ci guarda e ci apre la porta.
Ci sono subito 2 o 3 gradni in discesa.
È una stanza vuota: pavimentazione in cemento grezzo, muri con mattoni a vista consumati dal tempo, nella parete sinistra vi sono dei segni di diverso degradamento dei mattoni, all'altezza massima di circa 1 metro, come se ci fossero stati per molti anni dei tavoli o ripiani che ora non ci sono piú, 3 alte finestre sulla parete destra.
Mi trovo al centro della stanza, quando il tizio che ci ha fatti entrare ed M. (rimasti vicino alla porta) mi fanno cenno di sporcarmi le mani.
Così, (affrettato ed impacciato come uno che non sa come comportarsi davanti ad un personaggio di un certo spessore) mi volto verso un parallelepipedo di cemento a base quadrata di circa 2,5x2,5 mt che si erge nella stanza, alto 1 metro o poco meno: entro margini di una ventina di centimetri dai bordi, era pieno di una strana materia (un incrocio di argilla, cemento, ghiaietta e polvere ferrosa) che più all'interno si univa a braci ardenti (prima la stanza era completamente vuota).
Prendo un po' di "materia", così da poter stringere la mano al mastro, essendo sporco della stessa cosa di cui era sporco lui (come da tradizione a quanto pare).
Davanti a me c'è lui. Un signore molto anziano ma in ottima salute, pelle scura con rughe profonde scavate in un viso duro, barba lunga fino al petto, crespa e bianca e copricapo in testa. Sembra indiano.
Non ci sono dialoghi, ma mi mostra (anche se non ne ho ricordo) come opera.
-Rispettosi silenzio e ammirazione della sua arte.-
Contemplo con stupore una scultura di ferro grezzo.
Ci salutiamo con lo sguardo e con un lieve inchino del capo.
Sono ormai fuori dalla stanza con M. che prosegue il percorso, quando mi rendo conto di essermi dimenticato addosso dei guanti da carpenteria (diversi fra loro) che mi aveva fatto indossare il mastro.
Torno subito indietro e lo fermo appena prima che chiuda la porta e con un inglese vergognosamente arrangiato sbiascico: "Emm... Mister!... I've forgot your... guant... of... lavor..hemm.. work..." (qui mi accorgo che non avevamo ancora aperto bocca) lui prende solo un dei due guanti e,
senza parole ma con sana e pura empatia, mi comunica di tenere per me l'altro.
Torno ad affiancare M. mentre percorriamo un largo e lungo corridoio costeggiato da porte, panchine e piante in vaso qui e là (mi sembra di percorrere i piani alti di uno stadio).
Alla fine del corridio c'è una stanza con armadietti e panchine da spogliatoio.
M. si mette ad aspettare in mezzo alla stanza mentre io vado tra una panchina e un armadietto.
Mi tolgo le scarpe e le metto sotto la panca.
Mi sfilo i pantaloni, prima una gamba, poi l'altra... quando sento un frescore in mezzo alle gambe... Oh perbacco, sono col piffero al vento!
"E le mutande? Niente mutande... ma porca..." ho addosso una maglia larga e di 3 o 4 taglie maggiori della mia, che mi copre un po' il gioiello.
Mi volto a vedere se M. se n'è accorta, ma sembra di no... situazione potenzialmente imbarazzante/intrigante... comunque non se n'è accorta, faccio in tempo a riinfilarmi i jeans.
Solo che l'infilarmeli con la bestia slegata mi fa ritornare al "ma porca..." che avevo lasciato in sospeso: penso all'assurdità dell'essermi completamente scordato di mettere le mutande e non averci neanche fatto caso fino al momento in cui "l'ho visto"...
"L'ultima volta che mi è successo... stavo sognando..." ...
"!!!".
Mi sveglio di soprassalto col telefono che mi squilla all'orecchio.
Telefonata di qualche interminabile secondo. Sono le 17:46.